viernes, 23 de septiembre de 2016

Dante Alighieri / Infierno, Canto V 


Traducción de José María Micó 




Priamo della Quercia
























Versión original en italiano del Canto V del Infierno, de la Divina Comedia de Dante Alighieri


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                           Inferno, Canto V



         Così discesi del cerchio primaio
        giù nel secondo, che men loco cinghia
3      e tanto più dolor, che punge a guaio.
         Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
        essamina le colpe ne l’intrata;
6      giudica e manda secondo ch’avvinghia.
         Dico che quando l’anima mal nata
        li vien dinanzi, tutta si confessa;
9      e quel conoscitor de le peccata
         vede qual loco d’inferno è da essa;
        cignesi con la coda tante volte
12    quantunque gradi vuol che giù sia messa.
         Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
        vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
15    dicono e odono e poi son giù volte.
         «O tu che vieni al doloroso ospizio»,
        disse Minòs a me quando mi vide,
18    lasciando l’atto di cotanto offizio,
         «guarda com’ entri e di cui tu ti fide;
        non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!».
21    E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride?
         Non impedir lo suo fatale andare:
        vuolsi così colà dove si puote
24    ciò che si vuole, e più non dimandare».
         Or incomincian le dolenti note
        a farmisi sentire; or son venuto
27    là dove molto pianto mi percuote.
         Io venni in loco d’ogne luce muto,
        che mugghia come fa mar per tempesta,
30    se da contrari venti è combattuto.
         La bufera infernal, che mai non resta,
        mena li spirti con la sua rapina;
33    voltando e percotendo li molesta.
         Quando giungon davanti a la ruina,
        quivi le strida, il compianto, il lamento;
36    bestemmian quivi la virtù divina.
         Intesi ch’a così fatto tormento
        enno dannati i peccator carnali,
39    che la ragion sommettono al talento.
         E come li stornei ne portan l’ali
        nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
42    così quel fiato li spiriti mali
         di qua, di là, di giù, di sù li mena;
        nulla speranza li conforta mai,
45    non che di posa, ma di minor pena.
         E come i gru van cantando lor lai,
        faccendo in aere di sé lunga riga,
48    così vid’ io venir, traendo guai,
         ombre portate da la detta briga;
        per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle
51    genti che l’aura nera sì gastiga?».
         «La prima di color di cui novelle
        tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta,
54    «fu imperadrice di molte favelle.
         A vizio di lussuria fu sì rotta,
        che libito fé licito in sua legge,
57    per tòrre il biasmo in che era condotta.
         Ell’ è Semiramìs, di cui si legge
        che succedette a Nino e fu sua sposa:
60    tenne la terra che ’l Soldan corregge.
         L’altra è colei che s’ancise amorosa,
        e ruppe fede al cener di Sicheo;
61    poi è Cleopatràs lussurïosa.
         Elena vedi, per cui tanto reo
        tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
66    che con amore al fine combatteo.
          Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
        ombre mostrommi e nominommi a dito,
69    ch’amor di nostra vita dipartille.
         Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito
        nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
72    pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
         I’ cominciai: «Poeta, volontieri
        parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
75    e paion sì al vento esser leggieri».
         Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
        più presso a noi; e tu allor li priega
78    per quello amor che i mena, ed ei verranno».
         Sì tosto come il vento a noi li piega,
        mossi la voce: «O anime affannate,
81    venite a noi parlar, s’altri nol niega!».
         Quali colombe dal disio chiamate
        con l’ali alzate e ferme al dolce nido
84    vegnon per l’aere, dal voler portate;
         cotali uscir de la schiera ov’ è Dido,
        a noi venendo per l’aere maligno,
87    sì forte fu l’affettüoso grido.
         «O animal grazïoso e benigno
        che visitando vai per l’aere perso
90    noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
         se fosse amico il re de l’universo,
        noi pregheremmo lui de la tua pace,
93    poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
         Di quel che udire e che parlar vi piace,
        noi udiremo e parleremo a voi,
96    mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
         Siede la terra dove nata fui
        su la marina dove ’l Po discende
99    per aver pace co’ seguaci sui.
         Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
        prese costui de la bella persona
102  che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
         Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
        mi prese del costui piacer sì forte,
105  che, come vedi, ancor non m’abbandona.
         Amor condusse noi ad una morte.
        Caina attende chi a vita ci spense».
108  Queste parole da lor ci fuor porte.
         Quand’ io intesi quell’ anime offense,
        china’ il viso, e tanto il tenni basso,
111  fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».
         Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
        quanti dolci pensier, quanto disio
114  menò costoro al doloroso passo!».
         Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
        e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
117  a lagrimar mi fanno tristo e pio.
         Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
        a che e come concedette amore
120  che conosceste i dubbiosi disiri?».
         E quella a me: «Nessun maggior dolore
        che ricordarsi del tempo felice
123  ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
         Ma s’a conoscer la prima radice
        del nostro amor tu hai cotanto affetto,
126  dirò come colui che piange e dice.
         Noi leggiavamo un giorno per diletto
        di Lancialotto come amor lo strinse;
129  soli eravamo e sanza alcun sospetto.
         Per più fïate li occhi ci sospinse
        quella lettura, e scolorocci il viso;
132  ma solo un punto fu quel che ci vinse.
         Quando leggemmo il disïato riso
        esser basciato da cotanto amante,
135  questi, che mai da me non fia diviso,
         la bocca mi basciò tutto tremante.
        Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
138  quel giorno più non vi leggemmo avante».
         Mentre che l’uno spirto questo disse,
        l’altro piangëa; sì che di pietade
        io venni men così com’ io morisse.
142  E caddi come corpo morto cade.




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JOSÉ MARÍA MICÓ (Barcelona, 1961) es poeta, filólogo y traductor. Ha traducido en verso a Petrarca, el Orlando furioso de Ludovico Ariosto (Premi Nazionali per la Traduzione 2007) y a Ausias March. Su obra poética está recogida en La espera (1992), Recinto amurallado (1995), Letras para cantar (1997), Camino de ronda (1998), Verdades y milongas (2002), La sangre de los fósiles (2005) y Caleidoscopio (2014). Es catedrático de literatura en la Universidad Pompeu Fabra.       


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